Pensieri dal Paese delle aquile [il bello di sentirsi stranieri]

Data pubblicazione: 15-ott-2012 20.12.26

Siamo anime pellegrine in viaggio per il mondo: per ciascuno di noi l’occasione più straordinaria per amare e conoscere, l’opportunità più grande per sentirci stranieri [lo dice proprio padre Antonio, il parroco di Shengjin] … E la sensazione non è sempre delle migliori!

Gli Albanesi all’interno del loro stato sono circa 3 milioni [in Italia siamo 56 milioni], mentre fuori dalla loro terra sono ben 9 milioni: tre volte tanto. E’ di certo uno dei motivi per cui gli Albanesi sono semplici ed ospitali, perché sanno che sono e saranno ancora per molto tempo pellegrini. In questo, e nella loro capacità di apprendere lingue e culture diverse, gli Albanesi hanno davvero molto da insegnarci: sono loro, che vengono dalle porte dell’Oriente, a ricordarci che in dieci anni 1 miliardo di persone in tutto il mondo ha cambiato il loro paese di residenza. Di questi, purtroppo, oltre 1 milione sono vittime di tratte, ovvero di commerci di uomini, donne e bambini.

L’Albania è il paese di fronte, unito a noi dall’Adriatico, unito alle nostre coste dallo stesso mare: unito, non diviso dal mare che fino alle guerre del Novecento è sempre stato la più grande via di comunicazione e mai un ostacolo. Albania è la porta dell’Oriente, da quello ortodosso a quello turco, un po’ come duemila anni fa la Galilea. L’Albania, sarebbe meglio dirla in albanese “Shqiperia”, ovvero terra delle aquile, è un paese ormai a tre velocità: la prima Albania è quella dei carri a cavallo, delle pecore bianche del Nord, dei cappelli a punta delle montagne, del ḉifteli ghego a due corde e delle donne che attendono nelle fresche corti imbiancate di calce e verdi di vite il marito partito la mattina per il mercato; la seconda Albania è quella dell’apparenza, introdotta a forza dalle televisioni, in stragrande maggioranza Rai e Mediaset: telefonini, macchine potenti, fast food più riforniti del Mac Donald’s, fiotti di bevande energetiche e chi più ne ha più ne metta di scemenze. La terza Albania è quella invece che accetta la propria individualità, è quella a cui piace la tradizione di un’economia [soprattutto agricoltura] non viziata dalla corruzione europea. Quella che pensa che molte cose le possono sistemare proprio loro albanesi: dalle parrocchie, dalle associazioni o Onlus nascono gruppi che riescono a combattere silenzi, terribili soprusi, un bel po’ di povertà e centinaia di anni di dominazioni assurde che hanno ucciso millenni di storia.

Shengjin è il porto di mare [in tutti i sensi…] che oramai da sei anni accoglie coloro che vogliono fare esperienze estive di volontariato e di animazione alla gente del luogo: anche quest’anno, per un paio di settimane, è stato pacificamente “conquistato” da studenti dell’Istituto Seghetti, ex- allievi e altri ragazzi con cui abbiamo condiviso giorni pieni di luce assieme a suor Gianna, suor Assunta, suor Rosa e suor Luisa. Shengjin Nasce in riva al mare, sopra una striscia di sabbia conquistata coraggiosamente alla montagna rossa. In inverno è gelida, durante l’estate è musica techno-pop, odori forti di cassonetti tedeschi aperti, ragazzi che tornano dalla spiaggia, mostri di cemento sorti come funghi proprio davanti alla piccola casa delle suore. La strada è una pista da go-kart fino alla prossima pattuglia di poliziotti.

Colpiscono le famiglie che ancora vivono nelle cosiddette baracche, regno di fango secco, mosche e odori fortissimi di umanità. Genti si costruisce la casa, pian pianino, tanto per loro non c’è fretta e non esiste domenica; cinque minuscoli amici pelano quintali di patate e ci accompagnano tra le loro quattro pareti di legno; Genta biondissima in pigiama si stropiccia gli occhi, ci guarda da sotto in su e corre via scodinzolando a piedi nudi sulle crepe di quella terra arida. La figlia di Blerina sa solo sorridere anche se timidamente continua a strofinarsi la sua maglia per una dermatite.

C’è una grande città vicino: si chiama Lezhe e si va per cercar lavoro alla giornata: si parte dalle paludi dove il regime comunista ha lasciato come souvenir migliaia di bunker o alveari umani dove i prigionieri politici svolgevano i lavori forzati. Oggi, dentro a tali celle non vi sono che ombre di uomini, con al davanzale una manciata di fagioli da essiccare e ai muri improbabili credenze rigorosamente vuote: si mangia, si dorme e si ricevono gli ospiti sullo stesso letto divano a molle saltate: chiedete a Giergij a cui l’umidità che invade i suoi 30 metri quadri impedisce anche di accendere la luce.

I campi di lavoro, dove si moriva lavorando per il regime di Hoxha, le cartiere di Lezhe costruite dai Cinesi, sono stati chiusi più di vent’anni fa ma nessuno ha trovato una soluzione a questi mostri: se la politica è cambiata è stata scimmiottando quella –già malata- italiana o comunque occidentale, gli attuali demagoghi populisti. L’attuale primo Ministro-capotribù è stato il cardiologo el dittatore ed è colui che due anni fa condivise la battuta di Berlusconi: “Sbarchi per gli immigrati? Sono ammesse solo belle ragazze”. Forse il nostro ex-premier non conosceva la storia degli Italiani in Albania che, per un secolo –il Novecento- si è quasi sempre tradotta in invasione ed infine tradimento della popolazione balcanica.

E pensare che prendersi cura dell’umanità sofferente, che ci interpella sull’uscio di casa e che ci chiede aiuto, che ci chiede di rivedere i nostri esagerati stili di vita, che ci chiede di ripensare quale sia lo sviluppo sostenibile per tutti, dovrebbe essere una delle principali attività di un politico. E pensare che il popolo delle baracche sulla strada tra Shengjin e Lezhe viene da Tropoja, medesima città del premier Sali Berisha, lo stesso che ha messo figli e nipoti nei posti più importanti della politica e dell’economia albanese: è questa democrazia? E così l’Albania è di nuovo da reinventare: troppi i soprusi che la gente ha vissuto, troppe le violenze che si perpetuano ancora oggi, smisurate le angherie e le prepotenze che dagli Ottomani alla duplice invasione italiana, alla dittatura ha subito.

Abbiamo trovato, appena fuori dalle città, situazioni di disagio e miseria: tra le paludi di Malecaj molte persone [e bambini] sono malnutriti. La malnutrizione, conseguenza diretta della povertà, risulta essere una delle principali cause di disturbi neuropsichiatrici. Molti dei bambini con disagi mentali vivono in totale isolamento, nascosti tra le mura delle loro case e altri ancora vengono segregati in manicomi senza contatto con il mondo esterno. Alcune case-famiglia di associazioni come Progetto Speranza e Giovanni XXIII accolgono e cercano di reintegrare nella società bambini, giovani e adulti letteralmente raccolti da strutture statali dove si sopravvive in condizioni inimmaginabili: le cure sono assenti e il cibo è gettato lungo i corridoi luridi dei piccoli ricoverati.

Eppure l’Albania si muove e sembra svegliarsi definitivamente dal torpore. Guardo la sabbia tra gli ombrelloni verdi dove la vita sembra scorrere serena e spensierata e penso ai bambini della scuola materna, di quella elementare e del paese di Torovice, ai loro sguardi, ai loro abbracci. Non voglio, non vogliamo affatto tornare a casa: è una sensazione strana, penso impossibile da descrivere. In Albania senti il profumo d’uomo, ed è fortissimo; tocchi con mano nervi scoperti della nostra Europa [che tanto ha nelle viscere di orientale] e capisci un po’ di più cos’è la misericordia: la misericordia è partecipazione di cuori.

E’ il cambio di passo, l’andare oltre che ogni cristiano deve affrontare. Libertà e diversità dovrebbero essere le parole d’ordine, le parole chiave di una rivoluzione che dedica la battaglia alle moltitudini di casi e persone alimentando la conoscenza della diversità.

Nei paesi incontrati abbiamo percepito un desiderio di realizzazione solitamente personalissimo, scarsa l’adesione alla condivisione di un bene e di un bello comune: l’esterno è un’entità sconosciuta ai più o territorio insicuro dei poliziotti corrotti, residui di antiche galere: la città non è affar mio.

Dopo aver sorvolato tutto questo non si torna mai al punto di partenza: non è possibile. Scrive Primo Mazzolari: “Quando troverò uno che ha fame non gli potrò più dire <<Non so chi tu sia>>, perché ho visto. Davanti allo sguardo mortificato o rabbioso di chi è senza lavoro […], se vedo piangere, non potrò più scantonare; quando leggerò dei morti che la guerra ammucchia, […] Tu mi obbligheresti a guardarmi le mani.”

Gli orizzonti per chi va, per chi torna, per chi ascolta, si allargano smisuratamente. Si creano mondi, si forzano porte, si aprono cassetti, si tiran le tende, per portare un po' di niente a chi, primi fra tutti noi stessi, crede di aver tutto.

Chiudo con una battuta, tratta da Erri De Luca [I pesci non chiudono gli occhi]:

“<<Chiudi quei benedetti occhi di pesce!>> <<Ma non posso! Se tu vedessi quello che vedo io, non li potresti chiudere...>>”. E’ semplicemente un scambio di battute fra ragazzini innamorati. Eppure ci ricorda anche che stiamo al mondo come pesci, non nel senso che si sta semplicemente a galla [i pesci giocano e sono acrobati d’acqua]: i pesci non chiudono gli occhi a niente di ciò che sta loro accanto, e che li fa vivere, e che li fa stare a galla, giocando pure tra le onde del mare.

Lamberto e gli stupendi compagni di viaggio che rispondono al nome di: Luisa, Nicolò, Umberto, Alessandro, Pietro, Gianluca, Marta, Simona, Anna, Martina, Noemi, Giulia, Laura e Valentina.